Miniere di Seui

Miniere di Seui
Seui, Miniera - Laveria di "San Sebastiano" (foto di Giuseppe Deplano - giornalista - copyright © 2010, riproduzione riservata)

Storia

La storia del bacino carbonifero
di “San Sebastiano - Corongiu” di Seui

Localizzato a pochi chilometri da Seui, il bacino carbonifero di “San Sebastiano - Corongiu”, viene scoperto nel 1826 dall’esploratore e geologo Alberto La Marmora, quando, in compagnia del noto botanico Giuseppe Giacinto Moris, autore di approfondite ricerche sulla flora della Sardegna, nel suo pellegrinare per la Sardegna, attraversa la nostra zona.
L’insigne studioso esegue le prime indagini conoscitive sul terreno nei pressi della chiesetta campestre dedicata a “San Sebastiano”. Qui, negli estesi scisti neri che accompagnano l’antracite scopre le tracce di circa trentacinque piante fossili, risalenti all'epoca carbonifera.
Un accurato saggio sulla consistenza del bacino viene eseguito però solamente qualche anno dopo, nel 1833, con l’avvio della costruzione di una galleria con piano inclinato, caratterizzata da ponteggi lignei, per la protezione dei minatori impegnati. Ma, nonostante la buona qualità del prodotto estratto, però, questi lavori in profondità vengono interrotti, a causa delle notevoli infiltrazioni idriche.
I lavori di saggio riprendono soltanto qualche anno dopo, nel 1838, quando La Marmora affida ad all’impresa di Salvatore Tanas l’incarico di iniziare lo scavo di un’altra discenderia profonda circa novanta metri e diretta verso alcuni strati che si dimostrano estremamente ricchi di ottimo prodotto (45 mila tonnellate).
Successivi studi permettono di scoprire la reale vastità ed entità del bacino minerario, esteso per diversi chilometri quadrati, da “Monte Taddì” a “Serra Casteddu”, da “Corongiu” a “S’Enna su Monte”.
Pur variando all'interno del bacino la qualità del prodotto estratto risulta essere sempre di ottimo livello. Infatti, uno studio eseguito verso il 1855 dall'ingegner Baldracco del Reale Corpo delle Miniere di Torino presenta risultati estremamente interessanti sulle caratteristiche dell’antracite seuese, che mediamente si rinviene in strati di metri 3,5, e presenta valori con carbone e sostanze volatili pari a 92,50; ceneri rossicce: 7,50.
Ulteriori analisi sul “Litantrace Magro”, presente, eseguite nello stesso periodo dal Politecnico di Milano, confermano, approfondendoli, i dati positivi già presentati dall’ing. Baldracco: Ceneri 5-11%, zolfo nelle ceneri 0,51-0,015%, fosforo 0,002, potere calorico pari a 7.000-7.500 calorie.
Nel 1863, con il completamento della strada Seui - Tortolì, viene finalmente rotto l’isolamento della zona.
Dopo qualche anno dopo in località: "Coa de Planu Artu" o “Scoleris” iniziano i lavori di estrazione del carbone, con una produzione media annuale (iniziale) che arriva a circa 200 tonnellate di ottimo prodotto.
Successive analisi su quest’antracite, effettuate nel 1876 dal Laboratorio di Chimica docimastica della Scuola d’applicazione degli ingegneri di Torino, guidato dal professor Sobrero, danno questi risultati: Carbonio 69,85; materie volatili 4,70; ceneri 25,45; piombo ridotto 28,08.
Nel 1873 Eugenio Marchese, ingegnere del Reale corpo delle miniere, assieme a Gian Luca De Katt si uniscono in società con il sacerdote Antonio Atzori, con l’intenzione di sfruttare il giacimento e vendere il prodotto alle compagnie di navigazione marittime. Ma, pur avendo ottenuto il 2 settembre 1877 la concessione statale di sfruttamento, per problemi d’assetto societario, devono rinunciare all’impresa.
Nel gennaio 1885 la concessione viene rilevata dalla potente “Società di Correboi”, che oltre ad essere dotata di notevoli capitali ed attrezzature, possiede anche un forte potere di pressione sulle autorità statali. Infatti, maggiore azionista della società è il senatore e barone ligure Andrea Podestà, che non lascia niente d’intentato, in particolare in sede parlamentare, per ottenere la costruzione di una linea ferroviaria da far passare a Seui, quindi, nei pressi del “suo” bacino carbonifero.
Per vedere realizzato questo “sogno”, peraltro condiviso da tutta la popolazione locale, bisogna aspettare il 24 febbraio 1894, quando viene inaugurato la tratta ferroviaria a scartamento ridotto della Società delle Ferrovie Secondarie in concessione: Villanovatulo-Ussassai.
Con l'attivazione della linea si abbatte l’ultimo ostacolo che si oppone allo sviluppo dell’attività estrattiva. Da allora il carbone, una volta caricato sui vagoni in località "San Sebastiano", viene trasportato al porto di Arbatax per essere spedito a destinazione via mare.

L’attività estrattiva
Nel periodo 1886-87 la produzione cresce notevolmente, arrivando a toccando la quota media di 200 tonnellate annue di prodotto estratto.
Negli anni successivi i lavori si estendono anche ad altre località vicine, come "Tradalei" e "Sa Canna", anche se per tutto questo periodo, gli operai impegnati alle dipendenze della società genovese raggiungono appena le 50 unità.
Alla fine del secolo scorso, anche un'altra impresa, la "Società di ligniti e carboni della Sardegna”, con sede legale a Sassari e amministrata dall'ingegner Graziani, detiene alcune concessioni su piccole aree del bacino seuese.
Successivamente, a partire dal 1900, la concessione di una parte minore viene rilevata dalla "Società italiana delle miniere di Monteponi", che al principio si mostra piuttosto restia ad avviare la piena produzione per l’eccessivo costo del trasporto del prodotto da Seui ad Iglesias, in quanto questi due centri non risultano collegati dalla medesima linea ferrata.
Alti livelli di produzione si raggiungono soltanto durante la “Grande Guerra”, per ovvi motivi bellici e grazie ad una riduzione dei costi di trasporto: con 759 tonnellate con 21 operai nel 1914; 7.849 tons. con 96 operai nel 1915; 10.255 tons. con 178 operai nel 1916; 10.232 tons. con 292 operai nel 1917 e 8.800 tons. e 332 operai nel 1918.
In questo periodo, mentre i lavori di estrazione vengono concentrati prevalentemente nella discenderia “Cattaneo”, giungono a Corongiu anche un centinaio di prigionieri austriaci, che per la penuria di manodopera locale, vengono utilizzati sia in galleria che in laveria. Durante la loro permanenza, che si protrae per oltre un anno, vengono ospitati in un edificio isolato, ancora esistente, in località “Tradalei”.

La laveria
Nel 1916 il complesso minerario di Seui, compie un'ulteriore salto tecnologico, con la costruzione in località: “San Sebastiano” dell’edificio della laveria, che ancor oggi si erge con la sua maestosità architettonica, in stile tardo liberty.
A pieno regime questa struttura arriva a trattare sino a circa 40 tonnellate di prodotto al giorno, che una volta “lavato”, viene stivato nei vicini silos, per essere successivamente caricato sui vagoni ferroviari, diretti al porto di Arbatax.
L’antracite seuese, preventivamente trattata nel suddetto impianto, trova pieno utilizzo come combustibile anche nell’impianto elettrolitico per il bianco di zinco, che viene costruito, su progetto del professor Livio Cambi, in località “Scalo”, nella vallata sottostante la collina di Monteponi, a pochi chilometri da Iglesias.
Sfogliando le pagine della cronaca si scopre un avvenimento di sicura importanza nel cammino dell’emancipazione femminile in Barbagia, per diversi anni alcune decine di donne prestano la loro opera nella miniera, lavorando a fianco degli uomini, con diverse funzioni: cernitrici nella laveria, pulizie generali, trasporti e manovalanza edile.

Il periodo fascista
Lo sfruttamento del bacino carbonifero continuò con ritmo sostenuto sino al 1938, quando il complesso passa dalla “Società Monteponi” alla "Compagnia Mineraria Veneto-Sarda", che riesce a sfruttarla al massimo delle sue possibilità, in particolare a causa dell’embargo internazionale imposto al nostro paese dalla Società delle Nazioni, in seguito alla campagna militare italiana in Etiopia.
In questo periodo all’ormai vecchio e superato “Cantiere Cattaneo” si affianca anche un altro pozzo il “Sartori”.
Nei primi anni ‘40, intanto, grandi quantitativi di antracite seuese vengono inviati in continente per le fabbriche metallurgiche della “Merloni e Keller di Venezia”, ottenendo un ricavo di circa £.600 per tonnellata.
Anche le Ferrovie Complementari Sarde, utilizzano nelle loro locomotive a vapore questo combustibile, seppur in “pezzatura” mista a carbone d’importazione (3/5 estero e 2/5 locale). Questo utilizzo “ferroviario” cessa però del tutto durante il secondo conflitto, quando, venendo a mancare il prodotto estero, si deve ricorrere alla sola legna.
Durante tutto il periodo del conflitto, nonostante le difficoltà di trasporto del prodotto, a Corongiu si lavora in maniera continuativa, raggiungendo tra l’altro i più elevati livelli di produttività della storia dell’impianto: 1940: 45.078 tonnellate, 326 operai e 663.120 ore di lavoro; 1941: 47.798 tons. (259 operai e 570.132 ore/lav.); 1942: 31.412 tons. (230 operai e 593.175 ore/lav); 1943: 11.533 tons. (176 operai e 295.538 ore/lav.); 1944: 129 tons. (43 operai e 100.559 ore/lav.), 1945: 2.422 tons. (54 operai e 139.466 ore/lav).
Al termine del seconda guerra mondiale, con decreto in data 25 giugno 1945, il Ministro delle Corporazioni Fiore destina per il consumo “uso combustibile” della Sardegna una quota di 5.000 tonnellate di prodotto minuto estratto nel bacino seuese, in sostituzione di una identica quantità di prodotto Sulcis, che invece viene dirottato nella penisola. Contemporaneamente un’altra significativa quantità viene utilizzata anche dalla Cementeria Italiana di Cagliari.
Il 3 agosto 1945 l’allora ministro dell’Industria e del commercio, Giovanni Gronchi, assegna oltre ottocento tonnellate di “minuto” seuese alle Cartiere Miliani Fabriano, i cui stabilimenti si trovano nelle Marche, in provincia di Ancona.

Il secondo dopoguerra
Nel secondo dopoguerra l’attività estrattiva nel bacino seuese, seppur in modo altalenante, prosegue con una produttività piuttosto elevata: 1946: 9.310 tonnellate, 259 operai e 358.033 ore/lavoro; 1947: 35.083 tons. (295 operai con 554.517 ore/lav.), 1948: 8.641 tons. (69 operai e 120.887 ore/lavoro).

La chiusura
L’attività estrattiva cessa del tutto nel 1959, quando dalle gallerie di Corongiu escono soltanto 774 tonnellate di antracite (90 addetti e 30.168 ore di lavoro complessive).
La chiusura totale avviene nel 1961 (30.440 ore di lavoro), quando vengono licenziati gli ultimi quindici operai addetti alla messa in sicurezza degli impianti.
Le cause all’origine di questo epilogo sono di vario tipo: la diminuzione degli investimenti, gli elevati costi del trasporto, che viene effettuato interamente tramite ferrovia, la ridotta ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare e la fortissima concorrenza sul mercato internazionale. Non manca però la fortissima concorrenza di un’altra materia prima, più abbondante e costosa, il petrolio.
Gli stessi anni ‘50 sono caratterizzati da lunghe ed estenuanti lotte sindacali, da parte delle maestranze, che si oppongono ai continui ed inevitabili provvedimenti di riduzione del personale.
Nel 1959, inesorabilmente, arriva anche la sentenza di fallimento da parte della magistratura civile, con la conseguente fermata di tutti i lavori e la vendita dei beni rimasti.
L’ultima pagina di questa avventura mineraria seuese viene scritta il primo luglio 1964 con l’arrivo del provvedimento di revoca della concessione.

Il presente ed il futuro
Sul finire degli anni ‘80 la Pro.Ge.Mi.Sa ha condotto numerosi ed accurati studi e sondaggi al fine di appurare la reale consistenza del prodotto presente nel bacino. Ma, anche se i risultati sembra siano stati interessanti, le difficoltà circa un suo sfruttamento non mancano. Infatti gli strati di carbone, troppo dispersi e poco spessi, presentano costi di estrazione tanto elevati da rendere il prodotto decisamente poco competitivo. Almeno per ora. In futuro, chissà!

Oggi gli edifici della miniera di antracite di Seui si trovano nel più completo abbandono. Lo stesso palazzo della laveria, quello di maggior pregio, con i suoi ampi finestroni, spicca come un antico santuario, immerso in una vegetazione sempre più fitta, a pochi passi dalla linea ferroviaria oramai sempre più famosa per il suo “Trenino verde”.
Perché, prima che sia troppo tardi, non destinare almeno questo complesso ad un uso turistico? Infatti, questo maestoso edificio, una volta restaurato, oltre ad un museo potrebbe ospitare una struttura turistica polivalente, anche di tipo alberghiero - residenziale, con annessi centro servizi e congressi. Analoghe iniziative stanno riscuotendo un fortissimo interesse, non soltanto nella nostra isola, ma in particolare all’estero. Inoltre, recuperando tutta questa ricchezza, tra l’altro si creerebbero numerosi posti di lavoro.  (Giuseppe Deplano, copyright © 2010 – riproduzione riservata)